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Il tempo dello sguardo. 

Le figure tecniche nel paesaggio animato

LE FIGURE TECNICHE NEL PAESAGGIO ANIMATO

DI MASSIMILIANO CAFAGNA

MOSTRA FOTOGRAFICA TELEMATICA

A CURA DI EMILIO BADOLATI E PINO DI CILLO

Vito Quadrato

Di quanto tempo ha bisogno il nostro occhio per esplorare un luogo fisico e congelarlo in un’immagine?

Di quanto tempo ha bisogno il nostro occhio per scandagliare alla giusta profondità un paesaggio e riposare nell’armonia/tensione della visione?

Di quanto tempo ha bisogno il nostro occhio per trovare gli espedienti, le impalcature visive su cui far leva per lanciarsi libero, ma preso per mano, nell’esternità del mondo?

Conoscere le cose o conoscere nelle cose?

Dare risposta a questi interrogativi significa innanzitutto riflettere sul concetto stesso di conoscenza. Credo che, per riscoprirne il senso, occorra equiparare l’attività del conoscere a una battaglia contro l’estraniamento dal mondo. In questo senso, se da un lato combattere contro questo estraniamento significa tornare a sentirsi parte del mondo nel suo “divenire differenziale”, dall’altro vuol dire liberarsi dal preconcetto, che applichiamo a ciò che vediamo tramite processi mentali di astrazione, con cui tendiamo a imprimere e proiettare noi stessi, o quello che riteniamo aprioristicamente valido, nelle cose che osserviamo. Per conoscere dunque, occorre tornare a sentirsi in viaggio, avvertire quella sensazione di spaesamento che fa acuire i nostri sensi più reconditi, che ci fa sentire non più all’esterno, come consapevoli dominatori, ma all’interno delle cose, come meravigliati partecipanti. Ecco, che l’azione del conoscere cambia improvvisamente prospettiva, non ci si documenta più riguardo alle cose ma per mezzo di esse. Assumere questo atteggiamento verso il mondo significa sintonizzarsi, per dirla con Heidegger, con il “coseggiare” delle cose. In questi termini occorre forse, riconsiderare il significato stesso della materia e del nostro rapporto con essa. Nell’accezione odierna più comune la materia è un mero strumento che subisce, inerme e con un ruolo processuale passivo, il nostro pensiero e si adatta pedissequamente ad esso. Tradotto in parole povere questo vuol dire che nel momento in cui noi pensiamo o disegniamo una cosa, abbiamo già generato la cosa stessa. Ma, come sottolinea Tim Ingold, “il mattone, con il suo caratteristico profilo rettangolare, è il risultato non dell’imposizione della forma [e quindi del pensiero astratto] alla materia, ma della contrapposizione di forze uguali e contrarie che risiedono tanto nell’argilla quanto nello stampo”. Provando a ribaltare il punto di vista dunque, l’uomo non è più creatore di forme, ma colui che le porta alla luce attraverso un’interazione con le mille possibilità della materia.

La casa e il tumulo

Per meglio comprendere quest’idea di conoscenza, si può assumere come orizzonte di indagine proprio il paesaggio, il luogo con la più alta densità di relazione tra artefatto e natura, il luogo dove è possibile esperire questi reciproci scambi osmotici lungo un determinato lasso temporale. Non a caso è questo il limes concettuale scelto da Massimiliano per le sue fotografie. Immaginiamo ora di trasportarci all’interno di una delle foto dell’autore.  Ciò che appare nel nostro cono ottico è piuttosto immediato: una casa, una piccola rimessa, un deposito. Piccole costruzioni, artifici che si stagliano nella loro finitezza sull’apparente smisuratezza del paesaggio naturale. Registriamo immediatamente la nitidezza dei confini che ci permettono di individuare l’uno e l’altro elemento. È la base della concezione gestaltica del paesaggio come opposizione tra figura delineata, finita e sfondo, illimitato. Da questo punto di vista è come se l’uomo ritagliasse con precisione, con una forma che egli ritiene stabile, finita, una sagoma nello smisurato esterno del mondo. Immaginiamo ora invece un tumulo. Esso è per certi versi antitetico alle case che abbiamo appena visto, poiché è un cumulo di materiale eterogeneo che assume, assecondando le leggi di gravità quel profilo approssimativamente conico. In questo senso il tumulo mostra una quiete inerziale del tutto provvisoria, sempre suscettibile alle modifiche del tempo. Per quanto è plausibile che esso sia stato costruito dall’uomo esso è un non-finito, una provvisoria protuberanza che nel giro di qualche decennio potrebbe assumere sembianze del tutto diverse. Il tempo dello sguardo si allunga, e il passante ha dunque bisogno di indugiare su quei contorni sfumati, di interrogarsi sulla misteriosa possibilità che questo accumulo sia o non sia un artefatto. Anche quando non è costruito dall’uomo, l’osservatore vi coglie una traccia, in certi casi una possibilità di abitare. È questo il caso, dove una collina, una forma naturale, alludeva per chi l’ha osservata a una forma abitabile, plasmabile attraverso semplici operazioni. 

La casa e il tumulo si trasformano così nelle metafore opposte, secondo le quali si compongono i segni nel paesaggio. Risulterà piuttosto difficile, nella realtà, individuarle in maniera così netta e antitetica come nel caso degli archetipi presentati, tuttavia essi definiscono l’orizzonte percettivo della nostra “osservazione partecipata”, che troverà necessariamente un’ambiguità data dalle innumerevoli variabili intermedie in questa dialettica. Introducendo questi due paradigmi puramente strumentali, arriviamo al senso che, secondo me, assume questa rassegna di fotografie. Esiste, in questi scatti, una continua oscillazione dei segni che si sposta dal naturale all’artificiale con una provvisorietà tale da non poterli definire con esattezza. È proprio questa incertezza a scardinare la presunta presenza della casa o del tumulo: sono solo pochi gli episodi in cui le due immagini si cristallizzano, per poi immediatamente trasformarsi in qualcosa d’altro. Ecco dunque che le foto invitano non tanto a una conoscenza delle cose, quanto piuttosto a una conoscenza nelle cose. Lo sguardo, che trovando il suo tempo, sospende in qualche modo il giudizio, la manichea dicotomia rilevante/secondario, primo/ultimo, appropriato/casuale. La gerarchia dell’immagine si sublima mostrando attraverso una scelta ovvero una ineluttabile selezione visiva, una possibilità di convivenza e compresenza. In questo aspetto si schiude il vigore (e l’attualità) del messaggio fotografico, al quale questi scatti ammiccano, suggerendo, nella paziente scoperta, una taumaturgica verità. 

Il potere di queste immagini sta nel forzare in qualche modo il contesto di riferimento nel quale far emergere queste riflessioni. Gli invasi: delle risacche lontane dalla nostra esperienza quotidiana, dove i segni della tecnica e quelli della natura instaurano un dialogo aperto, non più condizionato dalla mano dell’uomo. Qui ogni presenza si fa incerta, ogni traccia è un interrogativo.


testo_Vito Quadrato

foto_Massimiliano Cafagna

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